L’età Moderna: la felicità ragionata.
L’uomo moderno si ribella all’uomo medioevale e, in particolare, a quell’impotenza in cui la filosofia cristiana – ancella della fede – lo aveva gettato. I moderni rivendicano la propria dignità e la propria superiorità rispetto alle altre creature del mondo, vivono nel qui e ora di questo tempo e di questo mondo, pensano la felicità e alla possibilità di una vita felice in questo mondo contro quella felicità possibile solo oltre la morte.
Abbiamo preso in considerazione due filosofi, rappresentanti originali del proprio secolo e che hanno avuto filosofie sulla felicità molto diverse.
Montaigne: filosofo per caso o per necessità, i suoi interlocutori preferiti furono gli antichi, che guardavano alla conoscenza dell’uomo come mezzo per il raggiungimento della felicità. La filosofia viene da lui intesa come saggezza che insegna all’uomo come vivere per essere felici.
Questo scopo, la vita felice, è al centro dei suoi Saggi.
Con Montaigne il «conosci te stesso» socratico, da cui la conoscenza inizia, non sortisce una risposta universale sull’essenza dell’uomo ma solo sulle caratteristiche del singolo uomo: vivendo e osservando gli altri vivere, cercando di riconoscere se stessi rispecchiati nell’esperienza degli altri, impareremo a conoscere noi stessi e, quindi, l’uomo.
Ogni uomo è diverso dagli altri, e, non essendo possibile stabilire i medesimi precetti per tutti, bisogna che ciascuno si costruisca una saggezza a propria misura.
Ciascuno non può essere saggio se non della propria saggezza.E in questa ricerca di una saggezza su misura del singolo, Montaigne dispone di una regola generale: dire sì alla vita accettando consapevolmente ciò che siamo.
Kant: “Felicità è l’appagamento di tutte le nostre inclinazioni (sia extensive, riguardo alla loro molteplicità, sia intensive, rispetto al grado sia anche protensive, rispetto alla durata). La legge pratica, fondata sul movente della felicità, io la chiamo prammatica (regola di prudenza); la legge invece – se mai esiste – che non ha altro movente se non il meritare di essere felice, io la chiamo morale (legge etica). La prima legge consiglia che cosa dobbiamo fare, se vogliamo possedere la felicità; la seconda legge ci ordina come dobbiamo comportarci, per divenire degni della felicità. La prima legge si fonda su principi empirici: in effetti, io non posso sapere se non mediante l’esperienza, quali siano le inclinazioni che vogliono essere soddisfatte, né quali siano le cause naturali che possono portare alla soddisfazione di tali inclinazioni. La seconda legge astrae dalle inclinazioni e dai mezzi naturali per soddisfarle; essa considera soltanto la libertà di un essere razionale in generale, e le sole condizioni necessarie, in base a cui la libertà possa armonizzarsi con la distribuzione della felicità, secondo principî. Questa legge, dunque, può almeno fondarsi su mere idee della ragione pura, ed essere conosciuta a priori”.
Ecco che in Kant la ragione produce angoscia e inquietudine perchè è vero che libera l’uomo dallo stato sensibile della condizione istintuale ma al tempo stesso, mettendolo di fronte alla libertà, gli fa sentire tutta la sua fragilità, la sua solitudine, la sua infelicità.
L’uomo kantiano non è pensato per vivere felice ma per vivere per meritarsi di essere felice.
Se il medioevo aveva alzato le aspettative, i moderni riportano l’uomo e la sua felicità sulla terra che abitiamo. La ragione rivendica la propria legittimità e si laicizza dalla fede: il pensiero razionale vuole la propria autonomia dalla fede e scaglia nuovamente all’uomo la responsabilità della propria felicità. Una felicità che ha il sapore del compromesso fra il diritto e il dovere ad essa.